McLaren F1

Spesso i sogni sopravvivono ai sognatori. Quello di Bruce McLaren, era di costruire una vettura stradale capace di partecipare e vincere alla 24 Ore di Le Mans, replicando i successi che il suo Team stava ottenendo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 nel campionato CanAm.

Ma il destino non permise al pilota, progettista e team manager neozelandese, di portare a compimento il proprio sogno, togliendogli prematuramente la vita nel giugno del 1970. Ciononostante, la scuderia McLaren continuò a vivere, e le sue vittorie, in Formula 1, a Le Mans e alla Indy 500 (unica squadra ad averle vinte tutte almeno una volta) e in tante serie minori restano nella storia.

I sogni sopravvivono e pensiamo che Bruce McLaren sarebbe orgoglioso di sapere che il suo desiderio si è concretizzato. Sul finire degli anni ’80, quando la McLaren guidata da Ron Dennis vinceva con superiorità disarmante in Formula 1 (ricordiamo i 15 successi su 16 gare nel 1988 con Prost e Senna alla guida), venne affidato al progettista sudafricano Gordon Murray, già autore della monoposto di cui sopra, il compito di realizzare una supercar stradale. E il nome, F1, era tutto un programma.

IDEA “ITALIANA”
La storia della F1 comincia proprio in quello strepitoso 1988, poche ore dopo il termine del GP di Monza in cui la Ferrari, per la prima e unica volta nella stagione, era riuscita a battere la McLaren. Su tutto il weekend di gara, aveva aleggiato il ricordo di Enzo Ferrari, scomparso pochi mesi prima. Il boss della McLaren, Ron Dennis, e il suo direttore tecnico, Gordon Murray, intavolarono una discussione non su cosa era successo nelle ore precedenti, ma su cosa avrebbe dovuto e potuto fare la McLaren negli anni a seguire. Forse per il freschissimo e amaro sapore della sconfitta, forse per l‘aria dell’Italia (culla delle più desiderate gran turismo), forse per il ricordo di Enzo che riportava alla memoria il fondatore Bruce, fatto sta che presto fu centrato l’obiettivo comune: costruire una supercar. Ad un entusiasta Murray il compito di realizzarla.

TECNICA SOPRAFFINA
A Murray fu data carta bianca. Tutta la macchina doveva essere realizzata in casa, solo per il motore sarebbe stato scelto un fornitore esterno. Essa avrebbe dovuto condensare il meglio della tecnologia disponibile ed essere la bandiera del più forte costruttore di auto da corsa dell’epoca. I primi schizzi della futura supercar risalgono al 1989. In principio, la vettura non fu concepita per un uno agonistico, ma per sfidare, su strada, i nomi sacri come Ferrari, Porsche e Lamborghini. L’obiettivo era ben definito, semplice ed estremamente impegnativo e ambizioso: realizzare la migliore supercar di sempre. Una macchina capace di sfiorare i 400 km/h, ma anche di portare in vacanza il fortunato proprietario.

Sin dalla prima riunione, Murray aveva ben chiaro il parametro, potremmo dire la filosofia, attorno a cui doveva ruotare tutto il progetto: la leggerezza. L’esperienza nel mondo delle competizioni insegnava che è meglio avere cento kg in meno che cento cavalli in più. La F1 utilizzava materiali di derivazione aeronautica e fu la prima vettura stradale al mondo ad adottare un telaio monoscocca in fibra di carbonio, una tecnologia fino ad allora riservata alle monoposto di Formula 1, che univa leggerezza ed eccezionale rigidità. La struttura dotata della tecnologia necessaria per realizzare la scocca fu individuata vicino alla sede McLaren e, per ironia della sorte, essa era in precedenza il centro GTO (Guildford Technical Office), voluto da John Barnard ai tempi della Ferrari.

La linea, opera di Peter Stevens, era aggressiva e sinuosa, con l’abitacolo protesi in avanti e la coda tronca; la F1, lunga 4287 mm, larga 1820 mm e alta 1140 mm risultava poi molto compatta, di forte impatto scenico. Sotto il vestito, nascondeva soluzioni tecniche di altissimo livello. Per la scelta del motore, vennero consultati ben otto costruttori: avrebbe dovuto avere almeno 550 CV e pesare meno di 250 kg, con una lunghezza massima di 600 mm. Sebbene in quegli anni le McLaren da pista venissero spinte dai propulsori Honda, per la F1 la scelta cadde sulla BMW, forse anche per i trascorsi di Murray alla Brabham-BMW negli anni Settanta-Ottanta. A Natale del 1991, il propulsore era pronto: il V12 tipo S70/2 di 6.064 cc (86 mm di alesaggio e 87 mm di corsa) stupì il team McLaren erogando la bellezza di 627 CV a 7500 giri/min e 651 Nm a 5.600 giri/min, facendosi perdonare i 16 kg in più rispetto alla richiesta. Tutto in lega leggera, a carter secco per abbassare il baricentro, aveva 4 alberi a camme in testa e 4 valvole per cilindro, con quelle di aspirazione comandate da un albero a camme con fasatura variabile e una farfalla di alimentazione per ogni cilindro.

Il comparto trasmissione prevedeva una frizione multi disco in carbonio, un cambio trasversale manuale a 6 marce e un differenziale autobloccante. L’attenzione al dettaglio è maniacale: saldature ridotte al minimo, parti in metallo ricavate dal pieno, ogni vite e bullone realizzato su misura. Sfogliando la fotogallery, sicuramente vi cadrà l’occhio su particolari luccicanti: ebbene, quello che vedete è oro a 24 carati, utilizzato per rivestire il cofano motore e le protezioni dell’impianto di scarico e isolarli termicamente (Venne addirittura utilizzato oro a 24 carati per rivestire il cofano motore e le protezioni dell’impianto di scarico e isolarli termicamente). Come una vera Formula 1, la F1 era priva di qualsiasi sistema che potesse filtrare le sensazioni di guida: quindi, niente servosterzo, ABS e controllo della trazione.

L’utilizzo dei materiali più avanzati e l’assenza di “inutili” dispositivi non necessari alla piena fruizione del mezzo, permettevano alla F1 di fermare l’ago della bilancia a 1.140 kg, distribuiti per il 41% davanti e per il 59% dietro. Un rapporto peso/potenza di 1,82 kg/CV. Solo per citare alcune concorrenti, la Ferrari F50 del 1995 disponeva di 520 CV per 1349 kg (2,59 kg/CV) e la Lamborghini Diablo del 1993 di 492 CV per 1576 kg (3.20 kg /CV). Un po’ di numeri che parlano da soli: l’accelerazione 0-100 km/h richiedeva 3.2 s, 0-200 9,4 s, 0-300 23,0 s, i 400 m erano coperti in 11,1 s, il km in 19,6, la velocità massima era di 386 km/h.

Nonostante le altissime prestazioni, la praticità della vettura non fu trascurata: a differenza di tutte le rivali che offrivano i classici due posti, la McLaren aveva una originale configurazione (precedentemente utilizzata negli anni ’60 solo dalla Ferrari per un prototipo) con tre sedili affiancati, il centrale dedicato al pilota e di chiara ispirazione Formula 1, e i due laterali, leggermente arretrati, per i passeggeri. L’accessibilità per il pilota, sebbene favorita dalle scenografiche portiere diedrali, non era delle migliori, ma una volta piazzatosi al posto guida, con il sedile, il volante e la pedaliera in titanio confezionati per assecondare le sue forme, poteva contare su una visibilità ottimale, una ergonomia perfetta e un immediato controllo dei comandi; si realizzava inoltre a un bilanciamento dinamico ideale. Davanti alle ruote posteriori, trovavano posto due piccoli vani per un set di valigie realizzato su misura, sufficienti per un weekend in due.

Per rendere gestibile un tale animale da pista, Murray fece ricorso a soluzioni utilizzate sulle monoposto. Le sospensioni erano a quadrilateri articolati e in lega leggera, con quelle anteriori caratterizzate dall’ammortizzatore posto in posizione orizzontale, come sulle monoposto. Un po’ di italianità nel reparto freni, con quattro grandi dischi e pinze di alluminio a quattro pistoncini marchiate Brembo. Infine, i cerchi da 17” calzavano grandi pneumatici 235/45 davanti e 315/45 dietro. Seguendo il principio per cui “la forma segue la funzione”, la filante linea della F1 era studiata per generare un flusso d’aria ottimale per raffreddare motore e freni e generare una forte deportanza senza penalizzare l’avanzamento. Sul muso, due grandi bocche portavano l’aria ai due radiatori anteriori, per poi sfogare attraverso le aperture ricavate dietro i passaruota anteriori. Una piccola presa d’aria sul padiglione incanalava l’aria per l’alimentazione del motore.

L’elettronica interveniva solo per gestire la complessa aerodinamica della F1, che utilizzava innovativi sistemi di ali mobili, banditi dalla Formula 1 dal 1969. In coda, un piccolo flap fuoriusciva alle alte velocità, deviando il flusso d’aria verso i dischi posteriori, e aumentando contemporaneamente la deportanza. In questo modo, si poteva controllare lo spostamento del centro di pressione dell’auto che in frenata, a causa del trasferimento di carico, tende ad alleggerire il posteriore. Murray ripescò anche l’innovativo sistema di controllo dell’”effetto suolo” da lui progettato nel 1978 per la Brabham BT46 e subito vietato: due ventole azionate da motori elettrici aspiravano l’aria prima che giungesse al retro dell’auto, incrementando ulteriormente la deportanza. La massima accelerazione laterale che si otteneva era di 1,2 g.

ESORDIO COL BOTTO
Il primo prototipo, denominato XP1, vide la luce il 24 dicembre 1992: fu utilizzato per un anno per i test e venne distrutto in un incidente in Namibia. Altri prototipi vennero assemblati successivamente: l’XP2 utilizzata dalla BMW per le prove di motore e poi sacrificata per i crash-test; l’XP3 usata per test di affidabilità, ma capace di raggiungere sul circuito di Nardò, i 371.8 km/h, nonostante un motore da soli 580 CV; l’XP4 e l’XP5 usati per scopi di marketing. La F1 venne svelata al mondo in occasione del Gran Premio di Monaco del 1993. E fu una presentazione sotto i migliori auspici, visto che la gara venne vinta dalla McLaren di Senna.

Il primo esemplare di regolare produzione fu completato il 24 dicembre del 1993. Per entrare in possesso di una F1 bisognava sborsare la bellezza di 540 mila sterline (all’epoca 1,2 miliardi di lire), rendendola la più cara vettura di serie mai prodotta. Forse per il prezzo, forse per la contrazione del mercato delle auto di lusso dopo gli eccessi degli anni ’80, vennero vendute solo 100 delle 300 unità preventivate, di cui 36 dedicate alle competizioni. Su questo parziale insuccesso, pesò la mancata commercializzazione negli USA, che avrebbe implicato altri crash-test e l’adozione di dispositivi di sicurezza come gli airbag.

Sebbene in principio l’impiego della F1 nelle competizioni non fosse pianificato, non ci volle molto per capire le sue immense potenzialità. Durante il 1995, furono allestite nove vetture per partecipare al campionato GT Endurance, denominate GTR. Le modifiche rispetto al modello di serie erano minime: tutto il superfluo venne eliminato risparmiando circa 100 kg, fu installata una gabbia di protezione, venne affinata l’aerodinamica e adottati cerchi da 18”. Per regolamento, il motore doveva avere delle flange all’aspirazione e ciò ridusse la potenza a 600 CV. Questa vettura entrò prepotentemente nella storia. Non solo dominò il campionato, ma vinse al debutto la 24 Ore di Le Mans, occupando anche il terzo, quarto, quinto e tredicesimo posto, stracciando la concorrenza dei più specialistici prototipi. Per celebrare questa fantastica affermazione, la McLaren creò una edizione limitata di cinque F1 – tante quante finirono la gara – denominate LM. In pratica, una GTR stradalizzata: il motore, senza più restrizioni, erogava 680 CV e 703 Nm, la massa era di soli 1062 kg, ed un pacchetto aerodinamico con alettone, minigonne e spoiler aumentava ulteriormente il grip. Come tributo a Bruce McLaren, tutte la F1 LM erano verniciate Arancio Papaya, il colore usato sulle Formula 1 e Can Am degli anni ’60 e ’70. La LM fu la più performante e desiderata di tutte le F1.

La GTR venne aggiornata per i campionati GT 1996 e 1997. La GTR ’96 vantava spoiler e alettone più pronunciati, la scatola del cambio in magnesio ed una massa vicina al limite dei 1.000 kg. Costruita in nove esemplari, vinse dieci gare su undici del Campionato Endurance e cinque del Campionato All Japan GT. La terza evoluzione del ’97 si differenziava notevolmente dalle precedenti, per via di un corpo vettura molto più lungo (4.933 mm), da cui il nome longtail. Ancora più leggera (915 kg), adottava una nuova trasmissione sequenziale ed una aerodinamica esasperata. Costruita in 10 unità, alcune delle quali acquistate direttamente dalla BMW Motorsport, continuò a correre e vincere gare fino al 1999, tra cui la 1.000 km di Monza nel 1998, e a collezionare importanti piazzamenti a Le Mans. Fece suo il record del più breve tempo speso al box durante la 24 Ore di Le Mans del 1998, dove colse anche un superbo quarto posto assoluto.

Ultima evoluzione della F1 fu la GT, sviluppata direttamente sulla base della GTR ’97 e realizzata in soli tre esemplari. Lunga, affusolata, generosamente dotata di spoiler e sfoghi d’aria, fu sicuramente la F1 con il più forte impatto scenico. Gli interni furono ridisegnati, con una profusione di pelle Connolly a Alcantara. Nel corso degli anni, alla guida della F1 si sono succeduti molti gentlemen driver e molti piloti famosi di provenienza Formula 1. Tra questi ultimi, vale la pena citare J.J. Lehto e Yannick Dalmas, che fecero squadra con il giapponese Masanori Sekiya nella vittoria di Le Mans del ’95, Jacques Laffite, Emanuele Pirro, Derek Bell e Nelson Piquet che assieme a Johnny Cecotto e Danny Sullivan realizzò il team più affascinante.

AMMAZZA-RECORD
Nonostante i tanti successi delle versioni da gara, il prototipo XP5 è forse quello che più è passato alla storia. Questo esemplare del 1993, verniciato nel Silverstone Green, il 31 marzo 1998, ultimo anno di produzione, stabilì il record mondiale di velocità per auto di serie. Sul circuito di prova di Ehra-Lessien in Germania, il pilota Andy Wallace spinse la F1 fino a 386.7 km/h (240.3 mph), battendo il precedente record non ufficiale di 371.8 km/h stabilito a Nardò e soprattutto polverizzando i 341 km/h ufficiali della Jaguar XJ220. Solo due giorni prima, la F1 aveva battuto Ferrari e Porsche alla 1.000 km di Monza, e i piloti Hakkinen e Coulthard avevano ottenuto la terza doppietta consecutiva della stagione. L’auto era perfettamente originale, con l’unica modifica del limitatore motore innalzato da 7500 a 8300 giri/min, ma soprattutto aveva già all’attivo ben 77.000 km. Affidabile, oltre che veloce… Il record fu battuto solo sette anni più tardi dalla Bugatti Veyron.

Stabilito che la F1 era la più veloce auto del pianeta, perché non dimostrare che era anche la più scattante? La prova consisteva nell’accelerare da 0 a 100 mph (160 km/h) e poi frenare fino ad arrestarsi. Il record da battere era di 12,4 secondi. La candidata fu la versione LM, la più leggera e potente di tutte le F1. Nel luglio del 1999, Andy Wallace abbassò il tempo a 11,5 secondi. L’ultima F1 fu completata il 25 maggio del 1998. Questo esemplare, telaio numero 65, è stato recentemente battuto all’asta per 3,2 milioni di euro. Quattro esemplari sono di proprietà della McLaren stessa: l’XP5, una LM, una GT e la vincitrice di Le Mans. Molte F1 riposano in musei e collezioni private, ma alcune GTR, su richiesta dei proprietari, sono state convertite dalla McLaren stessa in vetture stradali, per vivere una seconda vita.

Oggi, dopo dieci anni, si torna a parlare di una erede della F1, il cui prototipo P11 è già stato sorpreso in circolazione; anzi, da oltremanica giungono voci di una possibile gamma McLaren composta da tre modelli. Sulle orme di un capolavoro unico e irripetibile.

Fonte: Omniauto.it

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